I classici del Marxismo

SALARIO, PREZZO, PROFITTO

Lotta per il salario e abolizione del lavoro salariato

"Credo di aver dimostrato che le lotte della classe operaia per il livello dei salari sono fenomeni inseparabili da tutto il sistema del salario, che in 99 casi su 100 i suoi sforzi per l'aumento dei salari non sono che tentativi per mantenere integro il valore dato del lavoro, e che la necessità di contrattare con il capitalista per il prezzo del lavoro dipende dalla sua condizione, dal fatto che essa è costretta a difendersi come merce. Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande.

"Nello stesso tempo la classe operaia, indipendentemente dalla servitù generale che è legata al sistema del lavoro salariato, non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti; che essa può soltanto frenare il movimento discendente, ma non mutarne la direzione: che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia. Perciò essa non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una costruzione economica della società. Invece della parola d'ordine conservatrice: "Un equo salario per un’equa giornata di lavoro", gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: "Soppressione del sistema del lavoro salariato".

(K. Marx, "Salario, prezzo e profitto", Ed. Riuniti, pp. 112-113).

Il ritornello che gli aumenti di salario siano la causa dell'aumento dei prezzi risuona quotidianamente nella propaganda borghese. Non c'è economista, industriale o ministro che non sia pronto a giurare che solo col blocco dei salari si può contenere l'aumento dell'inflazione. Sembra quasi che la teoria economica abbia scoperto le cause profonde della crisi capitalista, da imputare naturalmente alla irresponsabile pretesa da parte dei lavoratori di avere aumenti salariali.

È una vecchia "teoria"! Centoventi anni fa Marx fu costretto a prendere la penna contro chi sosteneva questa castroneria.

Un buon diavolo, il cittadino Weston

Con buona pace dei Lombardini, Forte e Modigliani di oggi, si trattava semplicemente, come ci dice lo stesso Carlo, di "un povero diavolo di falegname", un buon vecchio di nome Weston. Costui sosteneva che un aumento generale dei salari non avrebbe giovato agli operai in quanto, se oggi i capitalisti avessero pagato due volte tanto il salario di ieri, domani i prezzi sarebbero aumentati del doppio. Ne concludeva, perciò, che l'azione delle organizzazioni economiche operaie era dannosa per gli stessi lavoratori.

Fu per controbattere questa seconda al: formazione, più che per smantellare una teoria economica sciocca e superficiale, che Marx lesse, nel giugno 1865, al Consiglio generale dell'Internazionale, una relazione che divenne in seguito un opuscolo dal titolo "Salario, prezzo e profitto".

La società capitalistica è la più complessa società mai esistita. Conoscerla per rovesciarla è possibile solo a condizioni molto precise. La prima sta nella piena assunzione piena assunzione della teoria marxista, che -unica- va al fondo dei vigenti rapporti sociali e ne traccia la via del rivoluzionamento in direzione del comunismo.

Questa teoria non trova spazio né nelle scuole né nelle chiese, né in TV né nel movimento "operaio" riformista se non per esservi denigrata, stravolta, data incessantemente come "in fin di vita" dai borghesi ossessionati dalla sua vitalità. Dobbiamo quindi farcela nostra "da soli". Questa rubrica fissa nel nostro giornale si prefigge di guidare i lettori in tale studio. E’ solo per i principianti? No, è anche per quelli che credono di sapere e non sanno.

Ciò che rende particolarmente significativo questo scritto di Marx è che egli, in poco più di 50 pagine, riesce a delineare nella sua interezza l'impalcatura della società capitalistica e a dare l'indirizzo politico alla lotta operaia in quanto contrapposizione radicale e complessiva ai rapporti economico-sociali capitalistici. Ciò che lo rende ancora più consigliabile è la sua attualità rispetto ai temi richiamati.

In esso la polemica contro Weston si sviluppa su tre direttrici: 1. il rapporto tra salari e prezzi; 2. il rapporto tra salari e profitti, 3. il rapporto tra lotta operaia per la difesa del salario e lotta rivoluzionaria contro il dominio borghese.

Punto primo. Per Marx sostenere -come Weston- che gli aumenti di salario provocano aumenti nei prezzi, equivale ad affermare che i secondi sono determinati dai primi. Ma con ciò non si fa che proporre la seguente tautologia: il valore del lavoro (il salario) determina il valore delle merci. Posta così la cosa, "non facciamo altro che spostare la difficoltà, perché determiniamo un valore per mezzo di un altro valore, che, a sua volta, ha bisogno di essere determinato".

Non si può sfuggire, perciò, alle domande: che cosa è il valore di una meri? Come esso viene determinato?

Per Marx il valore di una merce (e il valore delle merci in generale) non è determinato né dal prezzo del lavoro, né dal gioco della domanda e dell'offerta, che tutt'al più può spiegare le fluttuazioni dei prezzi. Il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro mediamente necessario a produrla, il quale a sua volta dipende dalla forza produttiva del lavoro (come si dice in genere: dal livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive).

Che differenza c'è tra la posizione di Weston e quella di Marx?

Per Weston il valore di una merce è determinato dal salario. Per Marx, invece, salario e tempo di lavoro (da cui dipende il valore di una merce) sono fattori tra loro diversi e dipendenti, e dunque anche i prezzi delle merci sono indipendenti dai prezzi del lavoro. Si potrebbe addirittura provare, allora come oggi, e "a parte alcune eccezion apparenti che reali", che in media il la pagato bene produce le merci più a buon mercato, e il lavoro pagato male produce merci care...

D'altra parte, ricondurre il valore d merce alla sua effettiva sostanza (il lavoro) è l'unico procedimento che consente di comprendere come mai le merci sono scambiabili tra di loro, qualsiasi sia la loro utilità (il loro valore d'uso). Bene, la "sostanza sociale" comune a tutte le merci è per l'appunto il lavoro, misurabile in ore, giorni, etc. Ed è proprio il tempo di lavoro che determina il valore (di scambio) di una merce.

Secondo punto: da cosa è determino il valore del lavoro, e quindi il salario? E, prima ancora, cos'è il lavoro? Solo dopo chiarito questi due aspetti verrà in luce il nesso tra salario e profitto.

Il lavoro è l'applicazione della forza fisica e mentale (forza-lavoro) di un lavoratore alla produzione di una merce. La forza-lavoro è l'energia che il lavoratore mette, temporaneamente, a disposizione del capitalista. Il valore della forza-lavoro, come quello di qualsiasi altra merce, è determinato dalla quantità di lavoro necessario per la sua produzione. In breve, il suo valore sarà determinato dal valore "degli oggetti d'uso comune che sono necessari per produrla, svilupparla conservarla e perpetuarla".

Da dove salta fuori il profitto?

A questo punto c'imbattiamo in un vero e proprio enigma: se le merci vengono scambiate al loro valore e se l'operaio riceve il "giusto" (rispetto al mercato) prezzo della sua forza-lavoro, come è possibile che il capitalista realizzi un profitto?

L’enigma dipende dal fatto che nella società attuale "sulla base del sistema del salario, anche il lavoro non pagato sembra essere lavoro pagato". Risolvere questa apparente contraddizione significa portare allo scoperto la forma attraverso cui avviene lo scambio tra capitale e lavoro, comprendere, cioè, le fondamenta del sistema di produzione capitalistico.

Marx ha fatto questo lavoro una volta per tutte, e ne condensa i risultati in poche, dense pagine di "Salario, prezzo e profitto". Vediamolo.

Acquistata la forza-lavoro dell'operaio, il capitalista acquista il diritto di usarla e consumarla per tutto il tempo che egli ritiene necessario. A parte i limiti fisiologici dell'operaio l'unico limite che il capitalista incontra è costituito dalla lotta di resistenza degli operai al prolungamento della giornata di lavoro.

Supponiamo -continua Marx- che un filatore riproduca la sua forza-lavoro producendo un valore di tre scellini attraverso un lavoro di sei ore al giorno. Il capitalista, acquistata la sua forza-lavoro, non si limita certo ad impiegarla per 6 ore, ma -poniamo- per 12. (Oggi, naturalmente, le cifre assolute sono scese, ma il rapporto relativo è ancora più squilibrato a vantaggio della classe sfruttatrice: secondo calcoli della CEE il tempo di lavoro mediamente necessario per la riproduzione del salario era di circa un’ora già nel ’72). Di conseguenza, oltre le ore necessarie a riprodursi come operaio, e che costituiscono il "tempo di lavoro necessario", il lavoratore salariato è tenuto a prestare altre ore di lavoro a tutti gli effetti non pagato, che tornano ad esclusivo vantaggio del capitalista.

Il pluslavoro è quella parte della giornata lavorativa in cui l'operaio produce un valore superiore a quello anticipato dal capitalista, in salari. Il pluslavoro produce plusvalore e cioè profitto.

Se dal valore di una qualsiasi merce si sottrae il valore delle materie prime e degli altri mezzi di produzione impiegati, ciò che rimane sarà il valore aggiunto dall'operaio che vi ha lavorato per ultimo. L'ammontare di questo valore (determinato a sua volta dal tempo di lavoro necessario a trasformare la materia prima in prodotto finito) è definito. Esso va ripartito tra salario e profitto; più riceve l'uno, meno avrà l'altro. Ecco, dunque, la vera relazione che non è tra salari e prezzi, ma tra salari e profitti.

In altri termini un aumento dei salari non incide sul valore (che dipende dal tempo di lavoro necessario a produrre una merce), ma sul profitto del capitalista. "Un aumento generale dei salari provocherebbe una caduta del saggio generale del profitto".

Ma sta attento, tu che sogni di mandare in rovina pacificamente il capitalismo con i semplici aumenti salariali! Marx non ti concede neppure un istante di illusione, perché subito precisa: la lotta per l'aumento del salario e la diminuzione della giornata lavorativa esprimono solo la resistenza della classe operaia alla voracità di profitto del capitale. Sono solo -e siamo al terzo punto- dei mezzi di difesa, dei rimedi parziali per attenuare, transitoriamente, lo sfruttamento capitalistico della forza-lavoro. "In 99 casi su 100 (...) non sono che tentativi per mantenere integro il valore dato della forza-lavoro".

Una tale attenuazione, però, non può esser né definitiva, né tantomeno progressiva. È sufficiente, infatti, un aumento della produttività, ottenuto per esempio con l'introduzione di nuove macchine, per riportare il grado di sfruttamento a livelli persino superiori di quelli precedenti.

In conclusione, e qui Marx scandisce il suo discorso in modo didascalico, il limite della lotta salariale non è quello di generare l'aumento dei prezzi, ma quello che "nella lotta puramente economica il capitale è più forte". È una lotta necessaria per alleviare gli effetti dello sfruttamento capitalistico, ma soltanto andando alla radice e spingendo la lotta fino ai presupposti sociali e politici di esso, il proletariato potrà distruggere quelle condizioni che ricreano ogni giorno il suo essere "schiavo" del capitale.